L’angolo di Full: “Favelas”

Favelas

    Dovevo barricare la porta, non c’erano alternative. Di certo non me l’ero sognata quella lama di coltello, infilata fra stipite e battente, che cercava di tagliare lo spago col quale m’illudevo di mantenere chiusa la porta sgangherata di quell’alloggio fatiscente dove, l’elemento più deprimente, era la totale mancanza di arredi. Per dormire avevo un materassino gonfiabile da spiaggia con stampato sopra un delfino azzurro più disperato di me e mi coprivo con un plaid del genere omaggio Agip. C’erano poi un tavolo e due sedie. Una tenda verde chiudeva un angolo della stanza che fungeva da armadio per via di alcune grucce appese ad una corda tesa lungo la diagonale dell’angolo.

Non era quello il peggiore dei posti che m’erano capitati, se non fosse per quanto succedeva durante la mia assenza. Ogni volta che rientravo capivo, dagli odori, che avevo avuto ospiti. Il puzzo meno inquietante era quello di spinello, il più odioso era il fetore selvatico tipico di chi ha disdetto il contratto con l’acquedotto comunale. Certo non venivano per rubare. Rubare cosa? Venivano per dormire, per ripararsi, per amarsi, per bucarsi. E il delfino azzurro li conosceva tutti.
La cosa peggiore era quel senso palpabile di profanazione che avvertivo ogni volta che rientravo. Evidentemente, si può contaminare anche un lurido cesso, se quel cesso è tuo.

Ora, la situazione stava diventando addirittura pericolosa, visto che non aspettavano nemmeno che mi assentassi.
Per farla breve, potevo barricarmi soltanto con quel tavolo che avrebbe spostato anche un bambino. Decisi di addossarlo alla porta e, per quella notte, ci avrei dormito sopra: settantacinque chili di ossa, umori e frattaglie. Per salvarmi qualche comodità, avevo pensato di frammettere il materassino-mare, ma era più largo del tavolo e rischiavo di rovesciarmi sul pavimento.
Ad ogni modo, ero spossato e dormii.
La mattina, quando mi svegliai, vidi lo spago tagliato. La barricata aveva dunque funzionato, ma non potevo dormire sul tavolo tutte le notti. Va bene per le frattaglie, ma le ossa non avrebbero retto.

La sera dopo ebbi una di quelle idee per le quali vado fiero. Avrei appesantito il tavolo con l’acqua. Sotto il lavabo, infilati uno nell’altro, c’erano alcuni secchi di plastica ereditati dall’inquilino precedente.
Così, ogni sera li posavo pieni d’acqua sul tavolo addossato alla porta e la mattina dopo li toglievo senza nemmeno svuotarli. Le tracce bagnate sul pavimento mi raccontavano gli avvenuti tentativi notturni, più o meno energici.
Certo, sarebbe stato molto più semplice mettere una buona serratura, ma quel legno marcio non l’avrebbe retta. E nemmeno le mie tasche.

Questi problemini, per così dire condominiali, hanno accompagnato almeno dieci anni della mia vita.  Non m’è andata sempre così male, eppure c’é stato di peggio e, per una ragione o per l’altra, le mie erano tutte notti da incubo.
Ma di giorno, in quei tuguri, riuscivo persino a trascinarvi qualche amica occasionale. Purtroppo, non appena raggiungevano la posizione orizzontale, avevano modo di leggere e interpretare gli inquietanti presagi racchiusi nelle bizzarre macchie di muffa e larve che s’allargavano sul soffitto e ciò bastava a spegnere in loro quel po’ d’euforia necessaria ad accettare il resto degli arredi, me compreso.
Qualche successo mi poteva capitare con chi era solita assumere posizioni diverse da quella supina. Ma, per ottenere il massimo, bisognava aver la fortuna di incocciare una di quelle creature che hanno, innato, l’istinto samaritano. Conobbi una madre misericordia la cui eccitazione era proporzionale alla fatiscenza dell’ambiente ed io dovevo solo completare la coreografia presentandomi mal rasato e sdrucito negli abiti per evitare che, una qualsiasi nota falsa, potesse influire negativamente su di un’anima tanto sensibile.

Il mio bilancio erotico, sostanzialmente negativo, non era giunto al fallimento totale per merito di mamma Jole e di una certa Zita.

«Birbante d’un birbante, non t’azzardare mai più a chiedermi una limonata calda alle due del mattino», m’aveva detto mamma Jole rimettendosi il camicione da notte.
Non m’azzardai mai più anche perché, ormai, ci veniva lei nella mia stanzetta in subaffitto, senza bussare e senza camicione. Ci abusavamo per un po’ poi mi faceva da mamma lasciandomi addormentare sul suo largo seno che profumava di vaniglia.
Dopo soli tre mesi, sua figlia tornò da chissadove riprendendosi la propria stanza ed io misi in valigia l’ormai indelebile profumo vanigliato che la mammona aveva barattato con la mia verginità diciassettenne.

Zita capitò qualche anno dopo. Era stata una mia collega d’ufficio fra le più brutte di quante annoverate e mai avrei immaginato che, in certi ambiti miserabili, la sua bruttezza potesse trasformarsi in provocazione. La flaccidità del suo corpo apriva profondità sconosciute ai miei palpeggiamenti mentre la povertà del seno e certe estensioni pilifere aggiungevano piccanti  sfumature  equivoche al rapporto. Cresciuti entrambi nei tabù di un sesso sporco e peccaminoso, ne avevamo raggiunto la dimensione ideale. Era anche singolare il fatto che, negli asettici ambienti di lavoro, non fossimo mai esistiti uno per l’altra.
Il rapporto con Zita è stato il solo a superare la ruggine del tempo, e non soltanto per la grande intesa erotica. Luce, ombra e buio erano i nostri alleati: la prima, ci filmava gli scabrosi giochi d’amore, la penombra ammorbidiva i nostri lineamenti e allentava l’assedio della miseria intorno a noi preparandoci alla notte che ci avvolgeva nella comprensione totale del buio. E nel buio, liberati da stupidi canoni estetici, osavamo essere felici.

Devo spicciarmi, mi alzo dal letto ricordandomi di un appuntamento a duecento chilometri e mancano solo tre ore. Mentre mi sbarbo penso che il portiere, annusando la mancia, potrebbe portarmi il Mercedes davanti al portone di casa evitandomi due piani di garage sotterraneo. Lo chiamo al citofono. Poi squilla il cellulare: la segretaria del presidente mi rammenta l’impegno: d’accordo! Urlo a mia moglie che non ho tempo per la colazione e mi fiondo in strada con la cravatta in una mano e il portatile nell’altra.
In autostrada ascolto distrattamente il radiogiornale mentre torno col pensiero alle mie abitazioni fatiscenti. Vent’anni di incubi ricorrenti, quasi ogni notte.
Sono il retaggio di un’adolescenza miserabile e di altri anni balordi che non descrivo mai, se non per sommi capi, perché non voglio sembrare quello che si commisera. Sono anche il segno che lascia la precarietà di ventitre recapiti diversi collezionati in due decenni.
Gli alloggi visitati nei miei incubi notturni erano sempre gli stessi, per anni. Ripetuti nei minimi dettagli, nelle atmosfere, negli odori. E avevano solo vaghi riferimenti reali.
In seguito, l’immersione in una vita abbastanza liscia con una mia famigliola, demolì le mie favelas.

  Poi, improvvisamente, ecco spuntare quest’altra stamberga con la porta barricata. Ogni notte un episodio diverso e allucinante. E quel dormire sul tavolo mi lascia le ossa rotte e doloranti per tutto il giorno, altro che sogno!  Ma, da oggi, basta! Metterò fine agli incubi. Obbligherò mia moglie a scegliere: o torniamo al nostro materasso di morbido lattice, oppure si tenga quella stramaledetta tavola ortopedica in un letto separato.    

   Prima ancora di arrivare a destinazione cambio idea. Come sempre. Mi terrò la stramaledetta tavola da incubo.
Del resto, come potrei rinunciare a Zita, a “madre misericordia”, al mio delfino azzurro, a mamma Jole e a tutti quei personaggi, fantastici e miserabili, come quella mia miserabile, fantastica libertà!

Fulvio Musso

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