Il principio del “rispetto per la vita” può ispirare ancora oggi il nostro cammino? – 3^ parte

(segue)

È utile ricordare che il primo che ha osato far valere delle considerazioni puramente etiche contro la guerra e promuovere un’intelligenza più elevata da una volontà etica, è stato il grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1469-1539). Lo ha fatto nel suo scritto “Il lamento della Pace”, pubblicato in latino (“Querela Pacis”) nel 1517. In questo scritto Erasmo richiama la pace, invocandone l’ascolto. È noto che Erasmo non ebbe molti seguaci in questo suo credo, perché era considerato un’utopia l’attendersi qualcosa per la causa della pace dalla valorizzazione di una necessità etica. Perfino Immanuel Kant (1724-1804) era di questo parere. In alcune sue opere, soprattutto in quella pubblicata nel 1795 intitolata “Per la pace perpetua”, il filosofo tedesco esprime la propria fiducia nella sua realizzazione solo in base alla crescente autorevolezza che viene accordata ad un diritto internazionale dovrebbe decidere nelle controversie fra i popoli.

Se mi è concesso approfondire il concetto di pace, che ben comprende il rispetto per la vita, abbiamo visto che se nelle diverse manifestazioni la pace è più che altro un fatto o la conseguenza di un conflitto, considerazioni diverse vanno fatte in riferimento all’ipotesi che essa sia considerata come un bene, e quindi come un valore da perseguire. E, da questo punto di vista, diverse sono le internazionalità e intensità. Ma ciò che è importante è l’individuazione di strade razionali e fattibili che portino alla pace: privando, in via minimale, gli eventuali contendenti, dei loro strumenti di guerra (disarmo); intendere la pace come prodotto da intese politiche (più o meno libere), che si traducono quindi in accordi fondati sulla potenza, ritenere che la pace discenda da una scelta matura e consapevole (pacifismo), la cui forma più intensa è la non violenza (l’antesignano della quale fu Indira Gandhi, 1917-1984).

Ma torniamo al discorso del filosofo alsaziano. Schweitzer sosteneva che le varie Istituzioni internazionali non sono state in grado di creare una situazione di pace. «Le loro preoccupazioni – ammoniva – sono state inutili perché dovevano intraprendere questo lavoro in un mondo nel quale non era presente una mentalità orientata alla realizzazione della pace. Essendo istituzioni giuridiche (il riferimento è alla Società delle Nazioni di Ginevra e all’Organizzazione delle Nazioni Unite, n.d.a.) non potevano creare tale mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico. Kant si sbagliava quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito etico: la via che egli non ha voluto seguire deve invece essere percorsa». Secondo il dottor Schweitzer la presenza o l’assenza della pace dipendono dal contenuto formativo che verrà espresso dalla mentalità dei singoli e dei popoli. Erasmo da Rotterdam, Maxmiliem de Béthune, uomo politico francese (1560-1641), l’abate di Castel Saint-Pierre, intellettuale francese (1658-1743), autore quest’ultimo di “Memorie per rendere la pace perpetua in Europa” (1712) attraverso le quali vagheggiò l’ideale di un europeismo federalistico, che estendesse al continente il modello svizzero od olandese e fosse in grado di assicurare la pace perpetua, che in passato si sono occupati del problema della pace, non avevano a che fare con dei popoli ma con i loro sovrani.

Con queste ed altre considerazioni Schweitzer era consapevole di non aver detto nulla di nuovo; tuttavia, era convinto che si sarebbe potuto dare una risposta a questo problema soltanto se si rifiuta la guerra in base a motivi etici, perché essa ci rende colpevoli di disumanità. Già Erasmo da Rotterdam ed alcuni dopo di lui hanno annunciato questo principio come una verità da tenere in considerazione. «L’unica cosa che oso rivendicare come originale – precisava il filosofo alsaziano – è che nella mia visione, questa verità è accompagnata anche dalla certezza che lo spirito del nostro tempo vuole creare una mentalità etica. Con tale certezza io annuncio questa verità, nella speranza di contribuire al fatto che essa non venga messa da parte come una delle tante verità che vengono espresse bene a parole ma di cui non si tiene conto in vista della realtà… Soltanto nella misura in cui, attraverso lo spirito, si risveglia nei popoli una mentalità di pace, le istituzioni create per mantenere la pace possono realizzare quanto viene loro richiesto e quanto si spera che esse possono fare».

I tempi di Schweitzer e i nostri attuali rientrano entrambi in un’epoca in cui la pace non c’è: i popoli si sentono tuttora minacciati da altri popoli. «È inevitabile – sosteneva il premio nobel – riconoscere ancora ai popoli il diritto di usare, per la propria difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Con il suo autorevole discorso Schweitzer si augurava di aver espresso il pensiero e la speranza di milioni di persone, che in molte parti del mondo temono per la pace, e concludeva: «Quelli che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: “Per quanto sta in voi, siate in pace con tutti».

Ora, come in una lucida progressione, l’uomo Schweitzer ci appare in tutta la sua coerenza. Il piccolo bimbo sensibile ai dolori del prossimo eleva la sua ricerca dell’uomo nei confronti di Dio, attraverso altrettante tappe della sua esistenza. Il filosofo affermato e il teologo predicatore instancabile uniscono le proprie forze per innalzare l’uomo a difesa dell’uomo, poiché per aiutare meglio la natura umana è necessario essere “avventurieri del sacrificio”. Se i tempi suggeriscono un recupero della figura di Albert Schweitzer, a maggior ragione, quindi, devono indurre a considerare il concetto di rispetto per la vita, la cui mentalità da esso creata è d’aiuto a chi lotta duramente per conservare la propria umanità, anche per il fatto che rimane viva dentro di lui l’immagine della natura umana come un bene da tutelare ad ogni costo. «Gli impedisce di condurre in modo unilaterale – è la spiegazione sottile ma concreta del gran docteur – la lotta per ridurre la mancanza di libertà materiale e lo chiama a riflettere sul fatto che molta umanità e molta libertà interiore possono conciliarsi con la realtà della sua vita, ben più di quanto, di fatto, si realizzi. Lo spinge a conservare, se vi avesse rinunciato, la meditazione ed il raccoglimento interiore. Bisogna arrivare ad una spiritualizzazione delle masse. Ogni singolo deve giungere a riflettere sulla sua vita, su ciò che vuole ottenere per la propria vita mediante l’esistenza, sulle difficoltà legate alle circostanze esterne e su ciò cui è disposto spontaneamente a rinunciare».

In decenni caratterizzati dalla grande incidenza del dibattito sui problemi della vita e sul rispetto della stessa, con il contributo di Schweitzer si è venuta a formare una concezione etica che richiama la nostra responsabilità per la vita dai rapporti interpersonali all’atteggiamento nei confronti del mondo e della natura. Il principio etico del filosofo alsaziano si può correlare allo sviluppo storico e spirituale del nostro tempo in quanto ne rispecchia le tendenze, le speranze, le angosce. Se l’etica vuole essere vera dovrà definirsi dal concetto basilare che è proprio il “rispetto per la vita”; un’affermazione che obbliga tutti, qualunque sia la loro situazione, a occuparsi e farsi carico del destino degli essere umani.

In questa ricerca interiore del “rispetto per la vita”, intesa in ogni sua più intima manifestazione, l’uomo deve avere la capacità di “mettersi in discussione” continuamente. La libertà interiore assurge così a parametro insostituibile per guardare nella propria coscienza e, dunque, per “mettersi in gioco”, provando a cambiare se stessi per aiutare gli altri a crescere e a vivere meglio. Schweitzer è pienamente cosciente della difficoltà di tale ricerca, ne conosce le privazioni e i sacrifici; pur tuttavia sapendo che è l’unica strada da percorrere perché «la verità – sosteneva Schweitzer – non ha un suo tempo particolare: la sua ora è adesso, sempre e più che mai quando sembra maggiormente inopportuna alle circostanze del momento».

Certo, non tutti possono o devono necessariamente recarsi in Africa ma sicuramente possono prodigarsi in qualunque modo per quel “rispetto per la vita” che possiamo intendere pacifismo, neutralità, difesa dei deboli, giustizia, etc. Ma per Schweitzer l’Africa non ha significato una fuga dalla vita o lo scopo della sua vita. Andare in quel Continente per lui non c’era nulla di eroico: si trattava semplicemente di adempiere un dovere. L’Africa è stato il simbolo della sua esistenza; il significato ne è il rispetto per la vita. Per rispondere, dunque, ai bisogni dell’umanità e all’affermarsi del rispetto per la vita tra le popolazioni del nostro tempo, occorre una forza interiore e una dose di spiritualità, ma anche una maturità che consiste nel poter lavorare per diventare sempre più giusti, più veritieri, più sereni, più amanti della pace, più mansueti, più buoni, più consapevoli. E vorrei concludere con l’augurio di Goethe (1749-1832): «Sia nobile l’uomo, pronto ad aiutare e buono». Come inteso da Albert Schweitzer, può ispirare ancora oggi il nostro cammino?

 

Ernesto Bodini

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