Genere ed etnia contano anche nei trapianti?

Joyce Trompeta

di Marcella Onnis

Una delle sessioni dell’ultimo congresso nazionale della Società italiana per la sicurezza e la qualità nei trapianti (SISQT), organizzato a Firenze dal 30 novembre al 2 dicembre 2016, è stata dedicata alle differenze di genere ed etnia, con l’obiettivo di evidenziare eventuali discriminazioni.

Nancy StittNON È UN MONDO LAVORATIVO PER DONNE? – Per quanto riguarda le differenze di genere in questo ambito lavorativo, la relazione di Nancy L. Stitt, presidente dell’International Transplant Nurses Society (ITNS), ha evidenziato innanzitutto un paradosso: l’ambiente di lavoro sanitario è considerato a dominanza maschile, eppure conta molte più donne infermiere che medici uomini, ragion per cui dovrebbe essere considerato un ambiente dominato dalle donne (a female-dominated workplace). A far sì che, in barba ai numeri, siano ancora gli uomini a detenere il potere sono, innanzitutto, ragioni storiche, ossia il fatto che solo negli anni Sessanta abbia preso avvio quell’inversione di tendenza che ha portato le donne a occupare ruoli lavorativi un tempo appannaggio degli uomini. Questi cambiamenti nella vita professionale della donna, però, non hanno modificato granché la sua vita privata – ha commentato la presidente dell’ITNS – in quanto tuttora grava prevalentemente su di lei la cura della casa.
Negli Stati Uniti, ha affermato la dott.ssa Stitt, la differenza di potere tra i generi si spiega anche con la differenza di retribuzione, inferiore per le donne (non così in Italia, però, ha rimarcato la dott.ssa Flora Coscetti, tra i moderatori della sessione), e con le minori opportunità di fare carriera, da cui la minor percentuale di donne nei ruoli di comando. Per quanto riguarda le professioni infermieristiche, nel 2011 solo il 9% dei lavoratori negli USA erano uomini, ma ricevevano paghe più alte: 60.700 dollari contro i 51.100 riconosciuti alle colleghe donne, un divario notevole seppur meno evidente che in passato, ha affermato la relatrice. Da evidenziare, però, che, nello stesso anno, la percentuale di uomini tra gli anestesisti saliva al 41%, anche qui per questioni economiche: la retribuzione per queste figure è, infatti, più alta.
In ogni caso, non esiste alcuna ragione biologica per questa disparità, ha rimarcato Stitt, impegnata in prima linea per superarle: sia l’ITNS che The Transplantation Society (TTS), ha spiegato, stanno portando avanti specifiche azioni di contrasto, puntando, in particolare, da un lato ad accrescere il riconoscimento per la carriera professionale delle donne, dall’altro ad affermare il principio per cui uomini e donne, anche in ambito lavorativo, devono rispettarsi a vicenda.

DIFFERENZE DI GENERE NEL TRAPIANTO – La differenza di genere è stata affrontata anche sul fronte pazienti dalla prof.ssa Christiane Kugler dell’Università di Witten e del Centro medico universitario di Friburgo. In particolare, la relatrice ha illustrato un recente studio condotto su un campione di 12 centri statunitensi che ha evidenziato alcune differenze tra uomini e donne nell’accesso alle liste di attesa per il trapianto, specialmente per fegato, rene e cuore. Per il fegato, si è registrata una riduzione del tasso di donne inserite in lista in seguito all’adozione del criterio di valutazione del Meld, che misura la possibilità di sopravvivenza dei pazienti con cirrosi e insufficienza epatica terminale: gli uomini, infatti, sono più a rischio di cirrosi da epatite C e contano una percentuale con problemi di alcoldipendenza di 2-3 volte più alta rispetto a quella delle donne. Le donne, però, ha evidenziato ancora la prof.ssa Kugler, sono 4 volte più a rischio di contrarre un’epatite autoimmune. Questi dati – in particolare l’influenza del Meld sulla diminuzione di donne in lista – sono, peraltro, stati confermati per l’Italia dalla dott.ssa Patrizia Burra, gastroenterologa dell’Azienda ospedaliera di Padova, che ha però evidenziato tra le pazienti di sesso femminile un aumento  nell’indicazione al trapianto per problemi di alcolismo.
Sempre nel nostro Paese, l’età del ricevente è in aumento per le donne come per gli uomini, mentre la percentuale di sopravvivenza tra le persone trapiantate per epatite C è inferiore per le donne, soprattutto per la comparsa di recidive. Tali dati, però, secondo la dott.ssa Burra potrebbero migliorare grazie ai nuovi farmaci. Sono, inoltre, più le donne che gli uomini ad andare incontro al trapianto per insufficienza epatica acuta, ma – ha aggiunto – in questa ipotesi maggiore è anche la loro percentuale di sopravvivenza. Differenze tra i generi si riscontrano anche nell’andamento del post-trapianto, soprattutto in base all’età e all’eventuale insorgere di eventi depressivi, ha affermato la gastroenterologa precisando, però, che i problemi di fertilità, per esempio, si riscontrano più tra gli uomini che tra le donne. In un giudizio complessivo, dunque, secondo la dott.ssa Burra, il genere incide, ma non è l’unico fattore che influenza il percorso di un paziente per questo tipo di trapianto.

Christiane KuglerPer quanto riguarda, invece, il rene, la prof.ssa Kugler ha mostrato come, in base allo studio da lei citato, esistano delle differenze tra pazienti non solo in base al genere ma anche all’età, alla situazione sociale e all’etnia: i pazienti con più di 60 anni, appartenenti a minoranze etniche (in particolare neri e ispanici) o di sesso femminile sono trapiantati in percentuali minori. Tuttavia, i dati raccolti mostrano come per le donne ciò dipenda anche da motivazioni personali, in quanto spesso le pazienti temono l’intervento oppure non si considerano abbastanza forti o adatte per affrontarlo. Inoltre, la prof.ssa Maria Francesca Egidi, Direttore della Nefrologia, trapianti e dialisi dell’azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, ha evidenziato come – diversamente da quanto accade per donne e uomini sani – le donne in dialisi hanno una mortalità non inferiore ma simile a quella degli uomini per via delle complicazioni cardiovascolari e dell’insorgere di altre patologie. Per di più, ha aggiunto, le pazienti in dialisi – a causa della continua assunzione di eparina – o trapiantate presentano di frequente problemi di osteoporosi o altre patologie ossee.

Quanto al cuore, lo studio citato dalla prof.ssa Kugler ha evidenziato che la percentuale di donne in lista di attesa è aumentata, ma sono meno quelle che accedono alla VAD (ventricular assist device, dispositivo di assistenza ventricolare), terapia che può fungere da alternativa al trapianto o da “ponte” per garantire la sopravvivenza del paziente in attesa del nuovo organo. In generale, dunque, esiste una disparità di genere sia sotto il profilo dell’accesso alle cure che dei risultati delle terapie, per cui per la prof.ssa Kugler sarà necessario analizzare i fattori che le causano e intervenire sugli stessi.

DONNE PIÙ DISCIPLINATE?  – È opinione comune che uomini e donne abbiano approcci diversi alla vita, per cui di sicuro interesse appariva l’argomento trattato dal presidente della SISQT Paolo De Simone (Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa – Chirurgia generale e trapianto di fegato): differenze di genere nel post-trapianto, con particolare attenzione all’aderenza, ossia al rispetto delle prescrizioni mediche da parte del paziente. La valutazione dell’aderenza, ha spiegato il dott. De Simone, varia a seconda della fase del processo considerata: in quella iniziale la casistica comprende solo l’accettazione o il rifiuto della terapia, la fase di attuazione può prevedere ritardi, omissioni, sovradosaggi di farmaci…, mentre nella fase di mantenimento può verificarsi un discontinuo rispetto delle terapie. Studiare questi fenomeni è importante in quanto la non aderenza – ha precisato il relatore – causa costi evitabili, quali nuovi ricoveri, fallimento del trapianto (graft failure) e anche morti premature del paziente. Punto di partenza di tale studio sono i fattori di rischio che, in questo ambito, possono essere sia personali (genere, età, livello di istruzione, condizione socio-economica, situazione familiare…) che esterni (Stato in cui è avvenuto il trapianto, distanza tra il luogo in cui il paziente vive e quello in cui si trova il centro trapianti…).

Paolo De SimoneDe Simone ha, quindi, illustrato l’esito di una ricerca intercontinentale condotta da più medici su 74 studi, relativi prevalentemente a trapianti di rene eseguiti in Nord America. Da tale ricerca è emerso, per esempio, che l’essere nero o uomo rappresenta un fattore di rischio per quanto riguarda l’aderenza, anche se il rischio per il genere maschile è di poco superiore a quello per il genere femminile. Non sembra, invece, esistere una correlazione tra questa e il possesso di un reddito elevato. È poi a rischio di non aderenza chi presenta più sintomi collaterali per le terapie e/o è stato trapiantato da tempo, mentre tra i pazienti più “virtuosi” rientrano quelli che hanno avuto problemi di salute prima del trapianto, in particolare diabete, perché tendono a essere maggiormente consapevoli della diagnosi e del trattamento, oltre che ad avere un atteggiamento positivo verso le prescrizioni mediche.
Secondo la dott.ssa Lucia Rizzato del Centro nazionale trapianti operativo (CNTO), tra i moderatori della sessione, il fattore organizzativo del sistema di cura dovrebbe essere più investigato in quanto su di esso «si può incidere molto». Nel concordare con questa osservazione, il dott. De Simone ha, però, precisato che si tratta di un aspetto difficile da investigare, ragion per cui sono anche disponibili pochi dati.

LA QUESTIONE ETNICA – Sulle discriminazioni etniche e razziali, solo accennate dalla prof.ssa Kugler, si è concentrata la dott.ssa Joyce Trompeta dell’Università della California (San Francisco), illustrando uno studio che ha messo a confronto numerosi stati quali Australia, Canada, Stati Uniti e Regno Unito. Tale studio ha evidenziato l’esistenza di differenze tra le etnie in termini di incidenza delle cause che portano al trapianto, di accesso a tale terapia, di mortalità in lista, di disturbi nel post-trapianto e anche di propensione alla donazione di organi. In particolare, la dott.ssa Trompeta ha mostrato come le minoranze (neri, asiatici e ispanici) presentino un rischio maggiore di obesità e di altri disturbi del fegato, restino più a lungo in lista di attesa per il trapianto, ricevano un organo da donatore vivente in percentuale inferiore, abbiano peggiori decorsi post-operatori… Le cause di queste disparità sono molteplici, in parte esterne al gruppo etnico e in parte interne, ha spiegato. Da un lato, infatti, il razzismo ha il suo peso come lo ha il fatto che spesso le minoranze vivano in aree geografiche lontane dai centri trapianti (particolarmente evidente in Australia, dove in un territorio vasto si contano pochi centri distanti tra loro) e/o in condizioni socio-economiche critiche: ciò fa sì che abbiano difficoltà ad accedere al sistema sanitario, peggio ancora nel caso di immigrati irregolari. In alcune minoranze, inoltre, rileva l’elevata percentuale di persone con gruppo sanguigno B, la cui rarità rende difficile trovare organi compatibili. Ancora: la povertà – ha rimarcato la dott.ssa Trompeta – si lega spesso a una scarsa cultura, che a sua volta rende queste persone poco interessate al trapianto e poco propensi anche a donare gli organi. Tra i neri americani, per esempio, pare sia diffusa la convinzione che, se si dichiarassero donatori, in caso di morte i medici “staccherebbero la spina” prima del tempo: una convinzione che nasce senza dubbio da una scarsa fiducia nel sistema sanitario pubblico, a sua volta generata da una scarsa fiducia nel sistema pubblico in generale. E comprendere le ragioni di questa diffidenza, soprattutto visto l’inasprirsi dei conflitti tra neri e polizia, non ci pare poi così difficile.
Joyce TrompetaI fattori culturali influenzano moltissimo la propensione a donare gli organi sia da vivi che da morti, ha spiegato la relatrice: spesso le persone non conoscono l’argomento e non hanno idea di quale fosse l’orientamento dei propri cari perché in famiglia non se ne parla. In alcuni casi, inoltre, la propensione a donare gli organi è influenzata dalla religione di appartenenza, com’è particolarmente evidente in Giappone: qui – ha spiegato la dott.ssa Trompeta – è, infatti, diffuso lo scintoismo, che crede nella reincarnazione ed è, pertanto, contrario a che si prelevino organi dal corpo, in quanto questo deve restare intatto per la nuova vita. La disponibilità a donare, però, è bassissima anche in India, dove solo lo 0,08% dei pazienti arriva al trapianto di fegato o rene.

Questo quadro va, quindi, riconosciuto e superato, anche perché – ha affermato la relatrice – dal 2050 negli Stati Uniti non ci saranno più minoranze (peraltro, ha aggiunto, in California gli asiatici già non sono più tali). Tra le azioni utili, la dott.ssa Trompeta include interventi in ambito educativo, la modifica dei criteri di allocazione degli organi, il rimborso delle spese sostenute dai donatori viventi e campagne di promozione che favoriscano la discussione in famiglia, anche con il coinvolgimento delle comunità religiose in quanto l’attenzione per i diversi credo è fondamentale. Da segnalare in proposito che, negli USA, le comunità ebraiche già si stanno muovendo per promuovere la donazione di organi tra i loro fedeli.

 

Foto Giuseppe Argiolas

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