Festivaletteratura di Mantova: souvenir n. 11

di Marcella Onnis

Souvenir nn. 1-4

Souvenir nn. 5-7

Souvenir nn. 8-10

Souvenir n. 11: il giallo di Cuba

Cosa lega Carlo Lucarelli e Leonardo Padura Fuentes, oltre l’amicizia e il fatto di essere entrambi autori di gialli? La concezione del giallo non come letteratura di evasione ma come strumento di introspezione sociale. L’ha spiegato al Festivaletteratura il celebre scrittore cubano.

Per questo – ha raccontato – quando nel 1990 ha scritto il suo primo romanzo (Passato remoto), i suoi modelli sono stati Leonardo Sciascia, Manuel Vázquez Montalbán, Rubem Fonseca, Paco Ignacio Taibo II…: scrittori che hanno fatto letteratura sociale pur avvalendosi di elementi del genere giallo, poliziesco … «Per me sono stati il miglior esempio che potessi scegliere» ha affermato. E di modelli da seguire c’è molto bisogno, quando ci si cimenta in un compito così delicato, perché «passare dalla realtà alla letteratura è sempre difficile.»

Su invito di Lucarelli, che in questo incontro si è riservato un ruolo secondario, Padura Fuentes ha illustrato il tormentato percorso che ha dovuto seguire per giungere alla pubblicazione in patria del suo primo volume. Il suo racconto, divertente e sconvolgente ad un tempo, ha offerto al pubblico una visione abbastanza precisa e sconcertante di Cuba, nelle sue tante contraddizioni. Abbiamo scoperto così che nel 1990 nell’Isola non si potevano comprare computer (né usare valuta estera), ma – ha spiegato lo scrittore – «la differenza tra socialismo sovietico e socialismo cubano è che si trova sempre una soluzione ad ogni problema.» E in questo caso la soluzione era far comprare un pc ad un amico straniero, perché a chi non fosse cubano era consentito acquistarne.
Ma in quegli anni la situazione era anche più critica di così: mancava il petrolio, mancavano i sigari, mancava la carta… così che il suo primo romanzo ha dovuto aspettare qualche anno per essere pubblicato nell’Isola e intanto è stato pubblicato in Messico.

Cuba non era e non è solo donne, sigari, musica e festa, ma anche restrizioni, menzogne e illegalità: «In un Paese dove l’informazione è controllata dal “mostro a tre teste” (partito, Stato, Governo, che poi sono la stessa cosa) chi ha voce – ha affermato lo scrittore – deve poterla usare per esprimere questo», ossia per raccontare le contraddizioni dell’Isola e la difficoltà di viverci.

Non che sia semplice farlo, però: soprattutto nei primi anni ’90, ha precisato, anche solo scegliere l’argomento di un romanzo era diventato difficile. Per quarant’anni, inoltre, gli scrittori cubani sono stati strettamente legati alle case editrici cubane per cui laddove non operava la censura, pur di non rischiare la mancata pubblicazione operava l’autocensura.

Nella seconda metà degli anni ’90, però, hanno iniziato a crearsi spazi di libertà di espressione nella letteratura, nel cinema… così che – ha proseguito a raccontare – i suoi romanzi, sempre più critici verso il regime, sono stati comunque pubblicati.
A tutt’oggi, però, il mondo dell’editoria cubana non è un paradiso: manca ancora la carta, il Governo ha ancora una lista di autori sgraditi che non vuole pubblicare e altri autori volutamente si rivolgono ad editori stranieri.

Seguendo il filo della sua narrazione abbiamo potuto farci un’idea del progressivo evolversi di Cuba. «Avana e le persone sono cambiate così tanto che può capitare di non riconoscere più la propria città. È capitato a Mario Conde [protagonista di diversi suoi romanzi] ed è capitato a me.»  Però, l’Isola non ha perso la sua caratteristica di terra delle “grandi contraddizioni”: «da una parte siamo un’isola che a volte è troppo isola – ha detto Padura Fuentes – ma dall’altra parte siamo cosmopoliti perché condividiamo gli stessi problemi dell’Occidente, pur restando politicamente un paese socialista.»
Ad esempio, i problemi e i conflitti dei giovani cubani di oggi sono gli stessi di tanti altri paesi. Quindi ha proseguito: «C’è la sensazione che abbiano un vuoto ideologico e una mancanza di prospettive come nel resto del mondo. Per questo cerco di dare una prospettiva universale ai miei romanzi», opposta a quella visione troppo localistica che rimprovera a certi colleghi compatrioti. «Cuba non riesce a capire i giovani perché è governata da persone di 70-80 anni incapaci di capirli», per questo tanti se ne vanno «e sono quelli che hanno grandi capacità, per cui stiamo perdendo un grande capitale.» E per Lucarelli, come del resto per ciascun italiano presente, trovare analogie con quanto accade nel nostro Paese è amaramente facile.

Ma c’è un problema che, invece, a Cuba è più grave che da noi: l’informazione. È abbastanza sconcertante, ad esempio, apprendere dal lui che i cubani hanno potuto iniziare a conoscere la verità integrale sulle vicende dell’Unione sovietica solo nel 2000. «L’accesso delle persone all’informazione è aleatorio» ha spiegato, perché «non esiste un unico canale, un’unica procedura.» Non solo: l’accesso a internet è limitato, «la stampa ufficiale è estremamente ufficiale» … Un insieme di fattori che favoriscono la coesistenza di più visioni della realtà differenti e non comunicanti tra loro. Per questo – ha detto – entro gli stessi confini di Cuba è difficile capire quali settori sociali possiedano la reale informazione su quanto sta succedendo. «La conoscenza dei fatti interni ed esterni è tardiva» e «la cosa peggiore è non poter tenere lo stesso ritmo del mondo.»

Altra piaga è la criminalità: «Cuba – ha affermato – è il posto al mondo con maggior densità di delinquenti per abitanti.» Lo dice un po’ divertito perché lì – dove anche comprare carne bovina è un crimine – infrangere la legge è una questione di sopravvivenza: «Se a Cuba ci si attiene alla legge, si muore in una settimana di inedia come in un campo di concentramento.» Qualcosa, però, inizia a smuoversi anche in questa direzione: Raùl Castro ha riconosciuto come principale missione del suo governo la lotta alla corruzione e lo scrittore trova strano il fatto che non si scrivano romanzi su questo argomento.
Ma di passi avanti ne devono essere fatti ancora tanti: «A Cuba c’è bisogno di un’apertura maggiore da parte del Governo per consentirci di pensare con le nostre teste e non come loro vogliono che pensiamo.» Poi ha proseguito: «Le persone hanno diritto di conoscere, sbagliare, cambiare idea… perché questo fa parte della dinamica della vita.»

Duro vivere a Cuba, ma per chi gli ha chiesto o vorrebbe chiedergli se se ne andrà ha pronta la risposta: «Non me ne vado perché sono uno scrittore, un cittadino cubano e credo che il mio posto sia là. Credo che in virtù del mio mestiere ho una responsabilità nei confronti del mio Paese cui non posso sottrarmi, anche se comporta dei rischi.» L’applauso qui è stato più che meritato.
Ma resta anche perché crede ancora in alcune cose: «che il baseball è meglio del football», «nella fedeltà e nella solidarietà tra le persone”, «che nel mondo ci siano ancora più persone buone che cattive.»

(continua)

 

Foto di Giuseppe Argiolas

2 thoughts on “Festivaletteratura di Mantova: souvenir n. 11

  1. Questo reportage da Mantova, altro che souvenir…, oggi spalanca la porta su un genere letterario seguito da un vasto pubblico di appassionati, ma da sempre considerato un pò di serie B. Il tuo servizio pone l’attenzione su quella introspezione sociale, caratteristica che a mio avviso dovrebbe essere sempre tenuta presente, di cui parla lo scrittore cubano e che ribalta il concetto del “giallo” come strumento d’ evasione offrendogli la possibilità di riscattarsi. Grazie per il tuo splendido lavoro!

  2. Troppo buona! Già, il giallo è un portentoso strumento per raccontare la società ma è molto sottovalutato (forse tendevo a farlo anch’io). Tu, invece, lo sai bene e “Il caso Svetlana” – che spero sia presto disponibile per i lettori in versione integrale – ne è un esempio calzante

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