Empoli: l’uomo che non si tolse il cappello davanti alla regina venne portato via dai fascisti. La testimonianza del partigiano Gianfranco Carboncini

 

67 sono gli anni che ci separano dalla dittatura fascista.

67 anni sembrano tanti ma sono ancora pochi per un Paese che ha visto, negli ultimi anni, ministri, esponenti delle istituzioni e parlamentari prodigarsi nel tentativo di apologizzare il fascismo svilendo, minimizzando e tentando di cancellare dai libri di scuola la Resistenza e l’antifascismo.

Tentativi più o meno velati di provare a demolire quella Storia fatta dal sacrificio di tantissime persone che spesero parte della giovinezza per la Liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista: persone che partivano coscienti di andare a riprendersi la Libertà, ma ignare del fatto che avrebbero fatto la Storia, che avrebbero permesso alle generazioni a venire, con il loro sacrificio, di entrare in una cabina elettorale e di parlare in libertà delle proprie idee.

67 anni sono passati da quando i partigiani resistenti ribaltarono il cammino dell’Italia scrivendo col sangue la prima riga della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”

Gianfranco Carboncini ha 83 anni e vive ad Empoli, in provincia di Firenze; era un partigiano nel 1945 e lo è anche oggi, a distanza di 67 anni: è Presidente della sezione Anpi della sua città e oggi ci racconta la sua esperienza.

Fino al 2006 era consentita l’iscrizione all’ Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, solo a coloro che avevano combattuto sul campo il nazifascismo; dopo il 2006 sono state apportate alcune modifiche allo Statuto dell’associazione, modifiche secondo le quali “possono altresì essere ammessi come soci con diritto al voto, qualora ne facciano domanda scritta, coloro che, condividendo il patrimonio ideale, i valori e le finalità dell’A.N.P.I., intendono contribuire, in qualità di antifascisti (…), con il proprio impegno concreto alla realizzazione e alla continuità nel tempo degli scopi associativi, con il fine di conservare, tutelare e diffondere la conoscenza delle vicende e dei valori che la Resistenza, con la lotta e con l’impegno civile e democratico, ha consegnato alle nuove generazioni(…)”.

La possibilità di tesserarsi ha dato uno slancio positivo all’associazione alla quale oggi aderiscono, secondo dati del 2009, 110 mila persone, tra i quali moltissimi giovani; che cosa prova un partigiano quando vede che sono per primi i giovani ad interessarsi ai valori della Resistenza?

Io sono contento, per me è una gioia, mi viene da dire che perlomeno qualcosa abbiamo lasciato. E credo che questo cambiamento dello Statuto sia stato positivo, perché così l’Anpi potrà andare avanti per sempre, perché l’antifascismo ci sarà sempre, così come la difesa della democrazia: ci sarà sempre qualcuno da controllare, che questa democrazia la starà mettendo in pericolo.

Nel periodo fascista eri un bambino: ci racconti com’era la scuola all’epoca?

C’erano molte, troppe disparità: a scuola passavano solo i figli dei signori e i figli dei fascisti, noi figli di operai venivamo rimandati a ottobre. Il sabato era il giorno dedicato al fascismo, ed era obbligatorio andare a scuola vestito da Balilla. Le suddivisioni erano che inizialmente eri figlio della lupa, fino alla terza elementare; poi fino alla quinta eri un balilla e poi avanguardista. E proprio il sabato gli avanguardisti ci preparavano, perchè l’uomo fascista doveva essere addestrato e reso fisicamente forte e pronto alla guerra.

Ricordo ancora il mio maestro delle elementari, era capitano della milizia e aveva un manganello attaccato lungo il braccio: chi faceva uno sbaglio veniva picchiato col manganello sulla testa, e noi dovevamo stare zitti.

E sui luoghi di lavoro invece, cosa succedeva?

Gli operai, chi lavorava nelle fabbriche, dovevano prendersi la tessera fascista sennò non sarebbero stati assunti: spesso avevano mogli e figli e quindi erano costretti.

E quando parlava Mussolini dovevamo andare tutti ad ascoltarlo, guai a chi non andava: ti facevano smettere di lavorare.

Era inconcepibile, quindi, pensare di non prendere la tessera fascista?

No, c’erano alcune categorie di lavoratori come gli artigiani o boscaioli, carbonai, persone che lavoravano in proprio e che non cercavano lavoro altrove che potevano permettersi di non prendere la tessera. Ma se venivano scoperti li processavano per antifascismo e li mandavano in prigione, o agli arresti domiciliari o al confino, così come se ti trovavano un volantino. Ricordo ancora che in alcune botteghe era appeso il cartello: “qui non si parla né di politica, né di altra strategia: si lavora”. E addirittura se nel centro di Empoli i miliziani avvistavano un gruppetto di tre, quattro persone a parlare gli si avvicinavano e gli intimavano di “circolare”. Non si poteva parlare.

Puoi raccontarci la tua esperienza?

Oggi ho 83 anni; sono partito come volontario della Libertà il 14 febbraio del 1945, quando ne avevo 16. Facevo parte della Quinta Compagnia del Secondo Battaglione del Gruppo Combattimento Friuli.

Come ti sei ritrovato a partire per la Resistenza?

L’ho deciso io. Mi ricordo la reazione di mia madre che piangeva quando le dissi che sarei partito; io le dissi: “Mamma, siccome ho preso questo impegno ora lo mantengo. Me lo porterei dietro tutta la vita il rimorso di non essere andato.”

Negli ultimi anni di riferimenti positivi al fascismo ne abbiamo sentiti tanti: dalla proposta di abolire la norma che vieta l’apologia del fascismo, ad Alessandra Mussolini che, da parlamentare, ha più volte ribadito simpatie per il Regime del nonno Benito; una persona come te che ha vissuto all’epoca e che questa dittatura l’ha anche combattuta, che cosa pensa quando sente queste cose?

Di queste cose mi dispiace molto, perchè tanta gente nella Resistenza ci ha lasciato la pelle, si è sacrificata, si è ammalata per liberare l’Italia dalla dittatura; la notte si dormiva fuori all’aperto, quando c’era freddo facevi una buchetta in terra e mentre riposavi l’altro tuo compagno faceva da guardia. Quando sei lì pensi innanzitutto a cercare di sopravvivere e poi a portare avanti gli ideali che hai, che a quei tempi lì si lottava proprio per avere la Libertà, pieni di entusiasmo perché i fascisti ce ne avevano fatte troppe. E sentire queste cose è un dolore per me.

Hai mai avuto paura che il fascismo potesse tornare?

Si ho ancora paura del fascismo perchè i partiti non ci sono più; credo che la situazione sia molto pericolosa perché invece di riflettere su come risolvere i problemi molto spesso all’interno dei partiti si litiga. E la sinistra trovo che oggi sia troppo divisa: a non stare uniti il fascismo tornerà.

Puoi raccontarci un episodio che ti è rimasto impresso di quegli anni di dittatura fascista?

Ricordo bene quando qui ad Empoli venne la Regina col Segretario del Fascio. Quando sfilarono sulla strada, al loro passaggio, c’era un signore anziano che non si tolse il cappello: vidi che venne preso di peso e portato via.

Grazia D’Onofrio

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