Dal donatore marginale al donatore non convenzionale

Renato Romagnoli

Luigi Boschierodi Marcella Onnis

Il congresso nazionale della Società italiana per la sicurezza e la qualità nei trapianti (SISQT), organizzato a Firenze dal 30 novembre al 2 dicembre 2016, ha dedicato vari interventi al tema dei donatori e degli organi subottimali. Il loro utilizzo, infatti, sta diventando sempre più ampio, anche grazie a nuovi criteri di valutazione che contemperano l’esigenza di non “perdere” organi comunque idonei a salvare vite con la necessità di garantire la sicurezza dei pazienti che li ricevono. La tendenza a “riabilitare” questi donatori e organi è emersa già dalla preferenza accordata dai relatori ad aggettivi quali “subottimale”, “esteso” o “non convenzionale” piuttosto che al termine “marginale”. Come ha evidenziato in particolare il dott. Luigi Boschiero della 1^ Chirurgia clinicizzata – Centro trapianti renali dell’Azienda ospedaliera di Verona, non si tratta solo di un cambiamento formale ma di un mutamento di approccio comunicativo, il cui esito non è affatto neutro: il termine “marginale” genera una percezione negativa in tutti, soprattutto nel paziente ricevente, con il rischio che rifiuti il trapianto. Rischio che, appunto, si riduce adottando terminologie più positive come quelle sopra indicate. Condivisa è, però, l’opinione che il paziente debba comunque essere adeguatamente informato sui rischi specifici e sugli eventuali minori risultati attesi per questo tipo di trapianto.

Antonio Dal CantonI RENI SUBOTTIMALI – Tra gli organi subottimali rientrano quelli provenienti da una donazione a cuore non battente (ossia per morte da arresto cardiaco), che anche nel nostro Paese comincia ad affiancare quella a cuore battente (ossia per morte encefalica). Nel suo intervento sul tema, il prof. Antonio Dal Canton della Nefrologia e dialisi del Policlinico San Matteo di Pavia ha subito precisato che la morte encefalica, ossia la «cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo», è presupposto per definire una persona legalmente morta anche in caso di arresto cardiaco. Quando quest’ultimo avviene in ospedale, è chiaramente più semplice accertare la morte encefalica, mentre più complesso è farlo quando la persona muore altrove, magari a casa o per strada in seguito a un incidente: in questi casi si presume che la morte encefalica sia subentrata dopo 20 minuti dall’arresto cardiaco. Dal Canton ha chiarito che tale lasso di tempo garantisce una maggior certezza e rappresenta una scelta «più etica» al confronto con i soli 5 minuti previsti dalle leggi adottate in Spagna e Regno Unito, tuttavia, comporta anche un inconveniente: rende, infatti, più difficile utilizzare gli organi perché si allungano i tempi dell’ischemia calda [l’ischemia, ossia l’interruzione dell’afflusso di sangue e ossigeno, si distingue in calda e fredda: la prima indica il periodo in cui l’organo resta a temperatura corporea, mentre la seconda indica il periodo tra il prelievo e il trapianto, durante il quale l’organo viene mantenuto a bassa temperatura, ndr]. Con questo tipo di donazione è più facile, quindi, che gli organi non siano in condizioni ottimali; in ogni caso, ha spiegato il nefrologo, una persona che riceve un rene da donatore a cuore fermo ha una percentuale di sopravvivenza a 4 anni dal trapianto superiore a quella che avrebbe seguendo una terapia alternativa, ossia la dialisi. È da tenere presente, però, che sugli esiti dell’intervento influiscono più fattori, tra i quali l’età del donatore e i tempi di ischemia (un’ischemia superiore alle sei ore aumenta del doppio il rischio di mortalità, ha precisato Dal Canton). A suo parere, comunque, in futuro la sopravvivenza a 5 anni sarà equiparabile per i due tipi di donazione, a cuore battente e a cuore fermo.  Il relatore ha poi affermato che nel 2013 l’Italia «era fanalino di coda» per le donazioni da morte cardiaca, ma «si sta migliorando»: dal 2008 al 2016 ne sono già avvenute a Pavia, Padova, Bologna, Firenze e al San Raffaele di Milano per un totale di 52 trapianti realizzati, di cui più di 20 eseguiti quest’anno, prevalentemente di reni.

Al giorno d’oggi i reni subottimali sono la quasi totalità, ha affermato il prof. Mario Carmellini, responsabile della Chirurgia dei trapianti di rene del Policlinico di Siena, specificando che ciò è dovuto non solo all’utilizzo di donatori a cuore fermo ma anche all’aumento dell’età media dei donatori, che si accompagna a una maggiore incidenza dell’insufficienza renale. Rivedere in maniera estensiva i criteri di valutazione dei reni subottimali sembra, dunque, essere stata una necessità. Sui risultati di questo nuovo approccio si è soffermato il dott. Boschiero, il quale ha evidenziato, per esempio, che il ricevente ideale per un rene proveniente da donatore con diabete o ipertensione è un paziente anziano, cioè con più di 65 anni o da lungo tempo in lista di attesa: in questo caso, infatti, si registra una sopravvivenza superiore a quella dei pazienti che restano in lista. Rassicurante, inoltre, apprendere che, con alcuni accorgimenti, è possibile trapiantare in sicurezza anche reni con piccole neoplasie. Per quanto riguarda l’età del donatore, Boschiero ha dimostrato, dati alla mano, che «il donatore anziano non per forza dà risultati subottimali»: ciò che conta è il rapporto tra età del donatore e del ricevente; in particolare, se la differenza di età non supera i 15 anni, le percentuali di sopravvivenza sono simili a quelle ottenute incrociando donatore e ricevente giovani o donatore e ricevente vecchi.

I CUORI SUBOTTIMALI – Per quanto riguarda i trapianti di cuore, assistiamo a un generale calo della qualità degli organi donati, anch’esso conseguenza dell’aumento dell’età media dei donatori, ha spiegato il prof. Massimo Maccherini della Cardiochirurgia dei trapianti del Policlinico di Siena. Addirittura, a livello internazionale si è registrata per la prima volta una riduzione della sopravvivenza nel post-trapianto, accompagnata da un aumento del tempo di attesa in lista (passato dai 2 anni del 2005 ai 2,5 anni del 2015) cui è conseguito anche un incremento del tasso di mortalità tra i pazienti che vi sono inseriti, maggiore che per gli altri organi. Anche per i trapianti di cuore, il match tra donatore e ricevente deve essere curato con estrema attenzione, tenendo presente che anche il secondo può presentare fattori di rischio, quali l’età e lo stato pre-clinico. In proposito, il prof. Maccherini ha confermato che la differenza di genere tra donatore e ricevente rileva, anche se il problema vero è la differenza di massa corporea: un cuore di piccole dimensioni, infatti, sarà difficilmente adatto a un corpo vigoroso.

Massimo MaccheriniAnche per i cuori, il problema della carenza di organi può essere affrontato rivedendo la valutazione di quelli subottimali, tenendo presente che – come ha rimarcato il cardiochirurgo – per questi trapianti i donatori a cuore non battente sono scarsamente utilizzati. A suo parere, la chiave di volta sarà valutare il cuore donato da un punto di vista funzionale e non più anatomico, come nell’approccio tradizionale. L’adozione di tale criterio – che, per i trapianti di rene, Boschiero ha definito «criterio principe» –  a Siena ha già consentito di aumentare di circa il 16% il numero dei trapianti di cuore realizzati, con un tasso di sopravvivenza in linea con la media nazionale. E, per Maccherini, i risultati potrebbero migliorare ulteriormente con una valutazione che tenga conto non solo della funzionalità del cuore ma anche dell’età e del tasso di rischio del donatore, ottenendo così «un dato più matematico e meno clinico, dunque personale». A suo parere, tuttavia, tali obiettivi potranno essere raggiunti solo costituendo una rete tra Cardiochirurgia e Cardiologia, necessaria per ottimizzare gli approcci di cura, che oggi possono includere il solo trapianto, la sola VAD (ventricular assist device, dispositivo di assistenza ventricolare) o entrambi, utilizzando quest’ultima in attesa del trapianto.

Renato RomagnoliI FEGATI SUBOTTIMALI – Il prof. Renato Romagnoli del Centro trapianto di fegato della Città della Salute e della Scienza di Torino ha evidenziato come la carenza di organi abbia reso l’uso degli organi subottimali «ormai pratica quotidiana». Tuttavia, ha rimarcato, non c’è omogeneità nei criteri di valutazione adottati dai vari Centri trapianto. I dati da lui illustrati consentono, però, almeno di superare alcuni pregiudizi riguardo ai fegati subottimali: studi recenti evidenziano, per esempio, che i risultati del trapianto non peggiorano se il fegato donato presenta steatosi. Quanto ai donatori a cuore fermo, anche lui è favorevole al loro utilizzo, ma ritiene che debba essere evitata la progressiva sostituzione dei donatori a cuore battente con questi perché, a un numero invariato di trapianti complessivi realizzati, potrebbe corrispondere un calo della qualità dei risultati. I dati già raccolti nel Regno Unito, infatti, mostrano che con il trapianto di fegato da donatore a cuore fermo raddoppia il rischio di non sopravvivenza. E, per Romagnoli, in Italia non ci si può attendere risultati più confortanti poiché – per quanto precedentemente illustrato –  è impossibile stare sotto i 25 minuti di ischemia calda. In ogni caso, a suo parere, il rischio deve, in generale, essere valutato non più in relazione al solo donatore o organo, ma considerando il trapianto nel complesso.

 

Foto Giuseppe Argiolas

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