A Torino la Giornata del Volontariato sui Tumori Rari del tratto gastroenterico

Durante la Giornata, svoltasi nell’autorevole e storica sede dell’Accademia di Medicina di Torino, illustrati alcuni sviluppi e progressi dal punto di vista diagnostico e terapeutico, ma in tutti casi prevale la multidisciplinarietà.

 

logo del GITR-GPSdi Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

Anche quest’anno con la giornata del volontariato sui Tumori Rari (svoltasi nel novembre scorso nella storica sede dell’Accademia di Medicina di Torino, presieduta dal dott. Alessandro Comandone), per iniziativa del GIST-GPS, si è voluto dedicare particolare attenzione ai Tumori Rari (TR) del tratto gastrointestinale alto, sul cui tema sono intervenuti diversi specialisti per un costruttivo confronto e approfondimento. È ormai noto che l’apparato gastroenterico rappresenta una delle sedi più colpite da tumori a bassa incidenza. Alcune di queste neoplasie hanno destato particolare interesse nell’ultimo decennio per la disponibilità di nuovi farmaci più selettivi nei confronti delle cellule neoplastiche. Altri tumori sono purtroppo ancora poco conosciuti e le terapie mediche sono prescritte sulla base di evidenze cliniche e sperimentali di basso livello.

Il tumore squamoso dell’esofago: da tumore frequente a tumore raro? Note di trattamento”, è stata la relazione del dott. Mario Airoldi, direttore della S.C. di Oncologia Medica 2 Città della Salute e della Scienza di Torino, che ha ricordato come nei Paesi occidentali i fattori di rischio di questo tumore sono rappresentati soprattutto dall’azione sinergica di fumo e alcool, mentre nei Paesi dell’Est asiatico, dove non è un tumore raro, la causa è legata alla contaminazione delle micotossine e composti di alimenti mal conservati. Esistono dei casi di predisposizione familiare legati al polimorfismo, come pure sono possibili alterazioni dei geni legati all’apoptosi (morte naturale delle cellule, n.d.r.), e tali anomalie risultano essere frequenti (93%) per le quali non è ancora disponibile una terapia. «Da noi per questi tumori, particolarmente invasivi – ha sottolineato il relatore -, non si fa prevenzione mentre potrebbe essere fatta nelle zone ad alta incidenza (Iran, Cina, Zimbawe, Kazakistan), conoscendone l’evoluzione e la storia naturale; e l’endoscopia potrebbe essere particolarmente utile per una diagnosi precoce…». Nel nostro Paese il tumore squamoso dell’esofago è piuttosto raro (circa 1.000 casi all’anno), e l’incidenza è in progressiva diminuzione, mentre è in aumento l’adenocarcinoma soprattutto nella giunzione esofago-gastrica. «Nel tumore squamoso dell’esofago, rispetto a quello delle vie aeree superiori – ha aggiunto il dott. Airoldi –, la sopravvivenza a 5 anni è molto bassa; la diagnostica pre-operatoria deve valutare il TNM del tumore stesso per poi impostare l’opportuno trattamento. Ma resta fondamentale una valutazione eco-endoscopica sia del tumore che dei linfonodi, in quanto tale esame è molto superiore alla Tac sia per valutare la profondità di invasione della neoplasia esofagea che la presenza di adenopatie».

Il dottor Floriano Rosina, direttore della S.C. di Gastroenterologia all’ospedale Gradenigo di Torino, ha affrontato il tema “Esofago di Barret e adenocarcinoma dell’esofago: un legame letale?”, ricordando che il Barret è una patologia che si caratterizza per la sostituzione da parte dell’epitelio colonnare dell’epitelio squamoso dell’esofago, precisando nel contempo che in termini di rischio oncologico sono due gli elementi che rientrano nella definizione dell’Esofago di Barret (E. di B.). «La definizione di Esofago di Barret – ha spiegato – è prevalentemente istologica. Esistono due tipologie di E. di B. sulle quali però non è ancora possibile definire un rischio oncologico; inoltre, bisogna considerare l’estensione dell’E. di B.: se superiore o inferiore a 3 cm, in quanto se superiore a 3 cm questa patologia presenta un rischio oncologico maggiore rispetto ad una dimensione inferiore. L’E. di B. rappresenta una lesione precancerosa e identifica dei fattori di rischio, uno dei quali è rappresentato dal reflusso gastroesofageo. Peraltro il 40% dei soggetti colpiti da tale patologia non ha mai avuto manifestazioni da reflusso gastroesofageo, che dunque è condizione predisponente ma non esclusiva». Uno studio svedese del 2005 ha dimostrato che la prevalenza dell’E. di B. era del 2,6% in pazienti che avevano sintomi di reflusso gastroesofageo, ma era presente nell’1,4% in pazienti che non avevano mai manifestato tali sintomi; e gli stessi dati sono stati successivamente confermati da uno studio italiano che ha identificato la prevalenza dell’E. di B. nell’1,5%. Il sospetto va confermato da un riscontro endoscopico con relativo istologico, e si sa che la stessa patologia può evolvere in adenocarcinoma attraverso lo sviluppo di una displasia di basso grado, intermedio o alto o più raramente attraverso lo sviluppo immediato di una displasia di alto grado. «Se si identifica una displasia di basso grado – ha spiegato il clinico – si deve controllare entro breve tempo (6 mesi) la presenza di tale displasia; se di alto grado è necessario un intervento multidisciplinare per decidere l’approccio terapeutico più opportuno. Quando l’endoscopia identifica una lesione macroscopica si propone una resezione endoscopica, non solo quale trattamento terapeutico ma anche per effettuare una stadiazione precisa». L’adenocarcinoma dell’esofago è una malattia che presenta un incremento in questi ultimi decenni, e si manifesta soprattutto dalla quinta decade di vita sino ad aumentare in modo esponenziale: negli USA in questi ultimi 30 anni si è osservato un incremento di circa 7 volte in incidenza e del 5,6% in prevalenza negli adulti con E. di B. « Il rischio di trasformazione di E. di B. in adenocarcinoma – ha concluso il dott. Rosina – che secondo alcuni studi è ad incidenza elevata, è dell’1% all’anno, percentuale che in questi ulltimi anni pare essere in ulteriore diminuzione». Dunque E. di B. e adenocarcinoma legati da correlazione ma non di certo evoluzione inarrestabile.

Per quanto riguarda il trattamento chirurgico del carcinoma della colecisti e delle vie biliari è intervenuto il dott. Paolo De Paolis, responsabile della Chirurgia Generale all’ospedale Gradenigo, ricordando che tale patologia è in continua evoluzione per il modesto risultato terapeutico alla resezione radicale, e la clinica si presenta piuttosto tardivamente con la conseguente diffusione metastatica precoce. Il problema è quindi di riconoscere le lesioni allo stadio iniziale a livello della colecisti. «Quando si è di fronte ad una lesione sotto i 10 mm. – ha spiegato il chirurgo – bisogna considerare se sia potenzialmente aggressiva, e ciò in base ai fattori di rischio che possono essere presenti o assenti. Se sono presenti è indicata la colecistectomia, se assenti si “sorveglia” il paziente». Ma quali sono i fattori di rischio? «L’età superiore ai 60 anni – ha precisato il clinico – la presenza di macrolitiasi (calcoli di oltre 3 cm. di diametro, che andrebbero asportati), la colecisti a porcellana, e la colangite sclerosante. Relativamente alla radicalizzazione della patologia tumorale che colpisce la colecisti, se è in stadio 2 e si re-interviene, la sopravvivenza è superiore a quella di una semplice osservazione, i risultati sono meno favorevoli se sono colpiti i linfonodi. Se il tumore è iniziale (T1A) o in situ, la colecistectomia effettuata precedentemente è sufficiente, mentre in tutti gli altri casi è opportuna la radicalizzazione. Per il trattamento del tumore di Klastskin l’unica possibilità di avere un buon risultato è quella di una resezione ampiamente radicale, che comporta però una mortalità significativa e una morbilità molto elevata. È un tumore che rappresenta una sfida importante in quanto vede associati due “gesti” chirurgici tecnicamente impegnativi: la resezione del parenchima epatico e quello dei dotti biliari».

La terapia medica del carcinoma della colecisti e delle vie biliari è l’argomento illustrato dalla dottoressa Patrizia Racca, responsabile del Colorectal Cancer Unit (CRCU) alla Città della Salute e della Scienza, precisando che si è nell’ambito dei tumori rari. I 7.500 casi all’anno negli USA, di cui 5.000 tumori della colecisti e 2.500 delle vie biliari, rappresentano il 10-15% dei tumori epatici primitivi e globalmente il 2% di tutti i tumori, l’incremento dei quali è rilevato nei Paesi occidentali. Il tumore di Klastkin rappresenta circa la metà dei casi, il colangiocarcinoma il 40%, il carcinoma intraepatico meno del 10% e le forme miste meno dell’1%. «La maggior incidenza di queste forme nei Paesi occidentali – ha spiegato – potrebbe essere ascritta alla presenza della sindrome metabolica, correlata al tipo di alimentazione, agli stili di vita e al manifestarsi dell’epatite C, e quindi all’epatopatia cronica e alla cirrosi. Il colangiocarcinoma intraepatico è una malattia che insorge dopo i 60 anni, più frequentemente su fegato con malattie croniche delle vie biliari e in particolare la colangite sclerosante primitiva. Le malattie più avanzate dell’intestino sono dovute a vari agenti ambientali, mentre fumo e alcool sembrano non essere cause preminenti. Il trattamento medico dei tumori della colecisti e delle vie biliari è poco soddisfacente: la chemioterapia adiuvante non ha a tutt’oggi un ruolo ben definito, anche se è comunque raccomandata e utilizzata, ma non esistono tuttavia degli studi randomizzati che dimostrino un vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto ai soli controlli dopo chirurgia». Un’ampia trattazione su “Il carcinoma neuroendocrino del pancreas: trattamento chirurgico” è stata fatta dal prof. Gian Ruggero Fronda, direttore della S.C. di Chirurgia Generale alla Città della Salute e della Scienza. Il primo assunto è che 1 su 10 dei tumori neuroendocrini del pancreas ha diffusione loco-regionale importante, e arriva alla diagnosi con una situazione di metastatizzazione epatica avanzata. La sopravvivenza è modesta. «La resezione pancreatica in questi casi – ha spiegato – va attuata anche nelle neoplasie neuroendocrine. Purtroppo la mortalità postintervento è ancora del 5% e rappresenta un motivo di accurata selezione dei pazienti da operare. Solo i malati in buone condizioni generali, con funzionalità epatica e pancreatica conservata e senza gravi copatologie sono candidabili all’intervento di duodenoencefalopancreasectomia. La resezione pancreatica è l’unico trattamento curativo per questo tipo di neoplasie e, il fatto che la prognosi dei tumori neuroendocrini non sia così “negativa” a confronto del carcinoma duttale o dell’adenocarcinoma, ha fatto sì che le indicazioni chirurgiche siano aumentate di numero pur nel rispetto dei criteri sopraindicati…». Ma il “tallone d’Achille” della chirurgia pancreatica sembra essere la fistola pancreatica che è dovuta alla sepsi, alla prolungata degenza, e alle emorragie con tassi di mortalità del 5% e conseguenti costi elevati. Il 50% delle localizzazioni del gastrinoma (tumore raro ma da non sottovalutare) è localizzato nella sede che va dalla via biliare, al duodeno e alla testa del pancreas; una posizione anatomica che giustifica il più delle volte l’intervento di duodenoencefalopancreosectomia. «Per forme di volume limitato – ha approfondito il chirurgo – si può ricorrere ad interventi “meno impegnativi”, ossia a delle semplici enucleazioni che permettono di mantenere l’integrità pancreatica, senza aumentare particolarmente il rischio di mortalità e di morbilità. Capitolo aperto resta l’approccio laparoscopico delle neoplasie pancreatiche, che implica una particolare esperienza e non offre particolari vantaggi rispetto alla chirurgia laparotomica».

Sulla terapia medica del carcinoma neuroendocrino del pancreas è intervenuta la dottoressa Nadia Birocco, dirigente medico all’Oncologia Medica 1 della Città della Salute e della Scienza, che ha esordito precisando che tale patologia è di per sé rara, ma pur avendo una bassa incidenza, ha una prevalenza più elevata, evidente segno di una lunga sopravvivenza dei pazienti… Nel lungo percorso di malattia di questi pazienti intervengono più figure specialistiche per determinare la terapia più opportuna e nel momento più appropriato, non solo in base ai fattori prognostici e istologici ma anche e soprattutto alle caratteristiche del singolo paziente. «Relativamente alla terapia nel tumore pancreatico – ha spiegato l’oncologa – si manifestano anche delle sindromi che possono compromettere la qualità di vita, e quindi è molto importante l’intervento dei singoli specialisti: gastroenterologo, endocrinologo, chirurgo, oncologo. Dal punto di vista della terapia medica antitumorale si è di fronte ad un contesto di malattia non operabile, soprattutto quando si tratta di tumori neuroendocrini moderatamente o ben differenziati. Farmaci a bersaglio molecolare e chemioterapia sono efficaci nel migliorare la sopravvivenza in quanto agiscono a livello di specifici bersagli cellulari». I bersagli molecolari riguardano i recettori della Somatostatina con gli analoghi, mTOR con l’Everolimus inibitore selettivo della proteina MTOR, la cui attivazione aberrante è correlata all’oncogenesi e alla progressione dei tumori neuroendocrini pancreatici (NET), e il Sunitinib che inibisce molteplici recettori delle tirosinchinasi che sono coinvolte nella crescita dei tumori, nella oncogenesi tumorale e nella progressione metastatica del cancro. «La raccomandazione delle linee guida – ha concluso la dottoressa Birocco – mettono in rilievo il ruolo crescente di Everolimus».

Si è poi passati a parlare dei GIST, tumori veramente interessanti dal punto di vista biomolecolare e farmacologico, ma che vedono ancora nella chirurgia un momento fondamentale. Ma quali sono le indicazioni della chirurgia? A questo riguardo è intervenuto il prof. Sergio Sandrucci, responsabile della SSD Chirurgia dei sarcomi e tumori rari viscerali alla Città della Salute e della Scienza, precisando: “… ciò che rende la chirurgia nei GIST molto delicata è il rischio di “rottura” del tumore con altissimo rischio di contaminazione della cavità addominale. Anche la sede anatomica di insorgenza del GIST va considerata con attenzione: aree molto complesse come il retto basso o la giunzione gastroesofagea richiedono in generale una terapia preoperatoria con Imatinib, il farmaco cardine della terapia dei GIST. Anche la chirurgia delle metastasi va riservata a casi selezionati con malattia in risposta ad Imatinib e con poche localizzazioni. Nei GIST più che in altri tumori gastroenterici la collaborazione pluridisciplinare tra oncologo e chirurgo è fondamentale». Il ruolo della terapia medica adiuvante post intervento è stato affrontato dalla dottoressa Antonella Boglione, dirigente medico in Oncologia Medica dell’ospedale Gradenigo. A seguito dello studio fondamentale dei tedeschi e degli scandinavi la terapia con Imatinib va proseguita per tre anni nei casi ad alto rischio di ricaduta. A riguardo alcuni autori giudicano un rischio significativo di ricaduta quello maggiore o uguale al 30%. In caso di malattia a basso rischio (< 10% di ricadute) la terapia adiuvante non va prescritta. Molto più difficili le decisioni nelle forme a rischio intermedio (tra 10 e 30%) dove forse un trattamento adiuvante limitato ad un anno può essere sufficiente. E per quanto riguarda il dosaggio tutti gli studi hanno considerato lo stesso nella misura di 400 mg. al giorno. «In questi casi la rottura del tumore – ha spiegato la dottoressa – è da tenere in particolare considerazione perché ha un elevato rischio di malattia microscopica intraperitoneale e va trattata con terapia con Imatinib a lungo termine. Il costo economico di una terapia protratta per tre anni è assai elevato, ma i risultati che ci provengono dagli studi sono assolutamente positivi soprattutto sul ritardare la ricaduta di malattia. Ed è altrettanto importante il follow-up sia durante la terapia adiuvante che successivamente, per  monitorare e correggere l’eventuale tossicità, ma soprattutto per giungere ad una diagnosi precoce di una eventuale ricaduta».

Ma come stanno le cose nel caso di terapia in fasi avanzate? Su questo argomento è intervenuto il dottor Giovanni Grignani, dirigente medico in Oncologia Medica all’Irccs di Candiolo (Torino). L’ Imatinib costituisce ad oggi il farmaco di prima scelta. La sua attività in malattia metastatica si mantiene per circa 5 anni, poi la malattia progredisce. Vi sono anche casi estremi: malattie caratterizzate da resistenza primaria e che dunque sfuggono subito al trattamento e GIST metastatici che continuano a rispondere ad Imatinib dopo 12 anni. Alla comparsa di progressione di malattia si può ancora proporre Imatinib a 800 mg. al giorno o passare ad altri farmaci anti tirosinchinasi quali Sunitinb in seconda linea e Regorafenib in terza. Purtroppo l’efficacia nel tempo delle linee di terapia successive alla prima è di qualche mese. «Ma in realtà – ha concluso il clinico – questi inibitori multi chinasici difficilmente riescono ad essere assunti a dosaggio pieno a causa delle condizioni generali del malato, in un contesto di malattia avanzata. Inoltre la tossicità dei farmaci di seconda e terza linea è assai superiore a quella di Imatinib».

alessandro comandone seduto con indosso il camiceIl dottor Alessandro Comandone ha chiuso la giornata con una presentazione dal titolo “Importanza dello stato mutazionale nella Terapia medica dei GIST”. GIST come malattia è prodotto di  una mutazione che si verifica sui geni KIT o PDGFRA considerati elementi fondanti e costitutivi della malattia (cioè non vi sarebbe GIST maligno senza mutazione che svincola la cellula di origine del Tumore da ogni controllo sulla crescita e replicazione da parte dell’organismo dell’ospite). In realtà circa il 10% dei GIST hanno mutazioni più rare e su cui non abbiamo ancora farmaci che agiscono con la medesima efficacia. Nella presentazione il dott. Comandone ha evidenziato come la presenza o la comparsa di mutazioni nella cellule di GIST indirizzi sia la prognosi della malattia (alcune mutazioni sono foriere di comportamenti molto più aggressivi, sia di risposta o non risposta alla terapia). La comparsa di alcune mutazioni ad esempio PDGFRA D842V è evento estremamente negativo perché rende il tumore refrattario alla terapia, soprattutto con Imatinib. «Allo stato delle conoscenze – ha precisato e concluso – si ritiene che la determinazione delle mutazioni in GIST sia fondamentale sia per definire la prognosi della malattia, sia la terapia più corretta nelle fasi di malattia avanzata sia nell’insorgenza di resistenze ai farmaci. Stranamente invece le mutazioni non sembrano indirizzare in modo significativo e coerente la necessità di iniziare un trattamento adiuvante che si basa ancora sui “vecchi” parametri di volume del tumore, numero di mitosi e sede della neoplasia. Peraltro un solo studio è stato analizzato confrontando volume, mitosi e sede con mutazioni e dati più definitivi provenienti da altri studi sono ancora attesi».

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