Il nostro weekend solidale a Nuoro e Oliena con la Prometeo AITF onlus

di Marcella Onnis

Nei giorni scorsi vi avevamo annunciato che la Prometeo AITF onlus avrebbe trascorso il weekend a Nuoro e Oliena per promuovere la donazione degli organi ma soprattutto – come più volte ribadito dal presidente Giuseppe Argiolas – rendere grazie alle popolazioni di questa zona dell’Isola, che anche in questo campo si distinguono per la loro generosità.

Per l’associazione si trattava del primo appuntamento del programma annuale di attività “Sardegna – Donare per la vita”, per cui abbiamo deciso di seguire in questa trasferta la sua “delegazione” composta dal presidente, da altri membri del nuovo direttivo (Severino Picciau, Stefania Padroni e Gianni Carboni) e dal consulente scientifico della Prometeo, dott. Stefano Dedola.

Prima tappa di questo breve ma intenso viaggio, la mattina di sabato 19 gennaio 2014, è stato l’incontro con gli studenti delle classi quarte del liceo “E. Fermi” di Nuoro, istituto diretto con grande serietà da Bachisio Porru e già sensibilizzato su questi temi. L’incontro con questi ragazzi, molto educati e partecipi, dimostra una volta di più quanto sia sbagliato credere che i giovani d’oggi siano tutti superficiali o apatici: la loro attenzione nell’ascoltare e la frequenza con cui hanno posto quesiti testimoniano come ci sia spazio, eccome, nelle vite di tanti di loro per l’entusiasmo e per i Valori. Se si dà loro fiducia, se li si ascolta e se si è pronti a rispondere a ciò che chiedono, possono dare tantissimo … e potranno darlo ancora, una volta diventati adulti.

Iniziative come questa – ha precisato la dott.ssa Elena Zidda che, come medico della Rianimazione dell’ospedale “S. Francesco” di Nuoro e responsabile del Coordinamento trapianti dell’azienda sanitaria locale nuorese, ha collaborato ad altre attività di sensibilizzazione presso questo liceo – «servono ad acquisire conoscenze scientifiche, sensibilizzare i ragazzi a conservare bene i loro organi e ad avere uno stile di vita corretto. Anche perché gli organi non bastano per tutti quelli che ne hanno bisogno.»

I ragazzi hanno dimostrato molta voglia di imparare e la loro curiosità ha interessato tutte le prospettive possibili: quella del personale sanitario, quella del donatore e quella del trapiantato. Sul primo versante, rispondendo a quesiti sul margine di rischio di questi interventi e all’impatto emotivo che possono avere su chi li esegue, il dott. Matteo Runfola, chirurgo del Centro trapianti di fegato dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari, ha chiarito che «ogni intervento non è mai uguale ad un altro. Non è soltanto un lavoro di testa: impegna anche il corpo. E lo stress c’è sempre anche perché le responsabilità sono tante. Più complesso è l’intervento, più alto è il rischio di sbagliare. Ma esistono sistemi di controllo per limitare il più possibile l’errore. Si sta affrontando in mondo standardizzato e completo la gestione del rischio, esattamente come si fa per i voli degli aerei di linea. Il rischio c’è sempre, ma la chirurgia e l’anestesia [fondamentale quanto la prima nella riuscita degli interventi] sono branche sicure.» Sul discorso dell’emotività, dello stress e delle responsabilità dei medici, è forse opportuno innestare una parentesi per commentare la preoccupante tendenza a ritenere il personale sanitario sempre e comunque responsabile della morte di un paziente. Una tendenza che, presumibilmente, si rafforzerà grazie ad alcuni spot molto discutibili che attualmente vengono trasmessi dalla televisione. C’è troppa facilità oggi nel ritenere i medici negligenti e incapaci, scordando che un paziente morto per loro è una sconfitta e che, oltre all’errore umano (che, peraltro, di norma non è doloso), esistono limiti oggettivi anche per la medicina, contro i quali nessun professionista può far nulla. Ma ciò che più spaventa è che non sempre le cause intentate contro le strutture sanitarie nascono dal comprensibile bisogno di trovare un colpevole per il dramma da cui si è stati colpiti: a volte – e forse non si tratta della minoranza dei casi – queste cause mirano semplicemente a trarre un profitto da un evento infausto, proprio come accade con le truffe alle assicurazioni che proteggono contro gli incidenti stradali. Solo che, in questo caso, non solo si sottraggono risorse a chi ha veramente il diritto di riceverle, ma si danneggia se stessi, visto che il sistema sanitario pubblico è finanziato, tramite il prelievo fiscale e dunque con i soldi di tutti i contribuenti. Non solo: agendo in questo modo disonesto e autolesionista, si rischia anche di rovinare la vita a dei seri professionisti, etichettati ingiustamente come delinquenti, se non come veri assassini. Con questi presupposti, con questo clima di estrema diffidenza, come può un chirurgo o un anestesista entrare sereno in sala operatoria? Come può, in generale, svolgere al meglio la sua professione un qualunque operatore sanitario? Il senso di responsabilità deve valere per loro come anche per noi pazienti, familiari dei pazienti e cittadini in generale.

Per un medico, però, un trapianto non è solo fonte di stress: è anche motivo di gioia, quando tutto va per il meglio (il che accade nella maggioranza dei casi, ha precisato il dott. Runfola). E «com’è salvare la vita ad un uomo?» ha chiesto uno studente, dando voce ad un quesito che si pongono anche tanti adulti. «Il paziente lo conosciamo già prima di metterlo in lista. – ha spiegato la dott.ssa Alessandra Napoleone, che ha maturato una notevole esperienza con i trapianti, prima come anestesista in sala e poi come rianimatrice – Prima dell’intervento, spesso i pazienti sono molto preoccupati, anche se contenti. Il nostro approccio è affettuoso e infatti difficilmente i trapiantati dimenticano l’équipe che li ha operati. Ricordano persino gli anestesisti, di cui spesso ci si dimentica.»

Per un chirurgo la prospettiva è parzialmente diversa: «Il momento in cui ti rendi conto di fare qualcosa di utile – ha raccontato il dott. Runfola – è la chiamata al ricevente, che arriva a qualunque ora del giorno o della notte. La persona che arriva è un misto di emozione, di terrore puro e di voglia di fare questa scommessa. È una bella sfida per tutti, soprattutto per chi riceve il trapianto. Non è solo un lavoro tecnico: è un lavoro che ha molto di umano, che è utile a qualcuno.» Per realizzare un trapianto è necessario attivare una rete complessa, che coinvolge un centinaio di persone, a volte anche fuori dalla Regione interessata, per cui l’intervento «è una bella sfida anche da un punto di vista organizzativo», una sfida che «in un periodo di burocratizzazione dell’attività medica, ravvicina, nella sua complessità, il medico agli esseri umani, restituisce umanità alla sua attività, perché ci si attiva per non sprecare quel donoIl giovane chirurgo ha poi ricordato che «questi interventi non servono a migliorare l’estetica né a migliorare un po’ la vita, ma a salvarla.»

Anche la dott.ssa Zidda ha voluto dare la sua testimonianza sull’argomento: «A Nuoro si fa solo il prelievo ma, dopo il consenso alla donazione, siamo tutti emozionati e stressati perché dobbiamo realizzare la volontà del donatore o dei suoi familiari. Immaginate cosa vuol dire se, dopo il consenso, qualcosa va storto e non si arriva al trapianto (che è un percorso ad ostacoli)… È molto frustrante.»
La dott.ssa Napoleone – attualmente primario della Rianimazione del “G. Brotzu” e periodicamente impegnata nelle pericolose missioni  di Emergency e Medici senza frontiere – ha poi voluto ricordare che il trapianto «è emozionante anche per i familiari dei donatori, che spesso sono i primi a chiedere, una volta ricevuta la comunicazione della morte del loro parente, se è possibile donarne gli organi. Come se potessero così trovare un po’ di serenità, di consolazione. Molti vorrebbero anche sapere chi è il ricevente, ma per legge non è possibile.» [N.B. è la legge che impone l’anonimato per il donatore e il ricevente, non sono i medici a non volere, discrezionalmente, rivelare ai familiari del donatore l’identità del ricevente o viceversa.]

(continua)

 

Foto Prometeo AITF Onlus

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